STORIE DI PAESE

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mercoledì 31 marzo 2010

FILIPPO E IL LUOGO SOSPESO

SanVitoCH.info (C)


Eppure Filippo ci aveva sempre creduto. Quando i grandi dicevano che se ne sarebbe andato il treno, lui già s'immaginava che bello sarebbe stato correre in bicicletta lì di fianco al mare. Quei due lunghi serpentoni di ferro, che aveva sempre dovuto temere e oltrepassare con la massima cautela, sarebbero diventati in un futuro, che non si capiva quando ma era lì,in pratica dietro l' angolo, un sentiero, dove dare sfogo alla sua voglia di libertà e all'adrenalina che di tanto in tanto gli accendeva le vene. Lontano da macchine e camiòni, senza continui saliscendi, Filippo non dubitava affatto che la cosa era già parlata,...cioè certa.

Filippo a quell'età di politica non parlava, non ne sapeva nulla, sebbene vedeva che alcuni dei grandi ci si scaldavano sopra; in effetti qualcosa aveva iniziato a capire coi manifesti: vedeva quelli del PCI e PSI, che poi erano comunisti e socialisti. Aveva, secondo lui, capito la differenza dal nome: per cui i comunisti volevano mandare avanti le cose con i Comuni e i socialisti con la Società. Beh, che bisogno c'era d'accendersi tanto? Perchè mai non potevano stare insieme i comuni con la società? Vabbè fatti loro.
Poi un'altra cosa aveva capito, che c'erano molti che per la politica non si scaldavano affatto e anzi non ne parlavano proprio. Erano i più calmi, che pensavano alla famiglia e al lavoro, che non avevano tempo da perdere con le fesserie, erano in fin dei conti la maggior parte, ed era il loro, quel partito con solo due lettere. Nel simbolo c'era una croce rossa che pure sua nonna sapeva subito riconoscere. E anche con la prima elementare sapeva cosa doveva fare: segnare la X a matita dove vedeva la croce sulla scheda.
Filippo di queste cose se ne fregava, ma lo divertiva vedere quelli che si scaldavano, che quasi sempre erano comunisti. Beh detto questo, Filippo pensava che la storia del treno che se ne andava e quell'altra cosa, che chiamavano politica, fossero due cose separate.
Togliere il treno e far correre le biciclette. Dov'era la politica?
E invece con il tempo si convinse che le chiacchiere molto spesso non sono solo vento come dicevano. Alcuni con le chiacchiere ci campavano, e pure bene. Altri nelle chiacchiere ci credevano, e ci si inguaiavano. Ormai però, di gente che si accendeva se ne vedeva poca. Il treno era andato via, punto. Non punto e basta, ma punto e boh. Via il treno e .... adesso chissà....adesso facciamo, vedremo, chiediamo, andremo, porteremo, si farà, s'è deciso....,di nuovo chissà.
Avevano fatto crescere un bambino con quella certezza, e ora il tempo aveva fatto il suo sporco lavoro e portato Filippo a conoscere l'amarezza.
Per fortuna pensava che c'era ancora un po' d'adrenalina in quelle vene. In fondo Filippo ci credeva ancora, e non smetteva di oliare la catena.

domenica 14 marzo 2010

IL MARCHIO, ovvero MATTEO SCOPRE I TRABOCCHI

SanVitoCH.info (C)

Matteo quei trabocchi li aveva sempre visti come una cosa scontata: c'erano, come c' erano sempre stati, e come dovevano sicuramente esserci dappertutto. Si stupiva lui stesso a vedere stupiti quei forestieri che chiedevano cos'erano e a che servivano.

Aveva smesso di darli per scontati dopo esserci salito sopra la prima volta; da bambino aveva avuto una paura nera a fare la passerella: diversamente da altre passerelle non si trattava di sfilare, ma più giustamente di passare dalla terra ferma alla piattaforma del trabocco. Agli occhi di principianti la passerella era qualcosa di quanto più instabile e pericoloso l'uomo potesse aver mai arrangiato. Alta sul livello del mare, le assi scricchiolavano e si flettevano sotto il peso dei piedi che con titubanza avanzavano; le stesse assi erano ora vicinissime l'un l'altra, ora distanziate di un buon palmo di mano. E poi oltre ad essere alta, quelle prime volte per Matteo la passerella sembrava non dovesse finire mai.

Una volta ci s' era messo il vento a complicare le cose e a Matteo gli sembrava che stesse per giungere la fine. Le gambe avevano preso a far giacomo-giacomo e il tremolio delle gambe sembrava che si fosse trasferito alla passerella tutta. Era certo che il prossimo passo, se fatto male, poteva esser l'ultimo. Aveva cominciato a sudare e a metà percorso, quando tornare indietro o andare avanti era ugualmente complicato, l'istinto fu quello di inginocchiarsi e andare avanti carponi. Per fortuna che non si era mai soli lassù. Per cui il rischio di scherno da parte di compagni più esperti o il rimbrotto dei grandi, il presumibile arrivo di uno scappellotto dietro al collo lo spinsero ad andare avanti e portarono Matteo sulla piattaforma. Da quel giorno la paura della passerella iniziò ad affievolirsi. Di lì a poco, Matteo si divertiva a passarci sopra di corsa, a tornare indietro e a fermarcisi sopra spavaldo, prendendosi lo scappellotto dietro al collo perché sulla passerella non si doveva sostare.


Non era nulla di scontato il trabocco, e più passava il tempo più gli sembrava la più grande opera architettonica che si fosse mai prodotta da quelle parti. Quello che vedeva Matteo da piccolo, era un ammasso, fatto alla meno peggio, di pali e paletti legati e inchiodati senza alcuna cognizione, corde e fili di ferro che passavano e si incrociavano dando del trabocco un'impressione di un paio di calzoni rattoppati al punto da non identificarne nemmeno più la stoffa originale da quella aggiunta dopo.

Invece no, i traboccanti erano maestri che con gli anni erano riusciti a costruirsi una macchina straordinaria, tanto esile e fragile all' apparenza, quanto forte e resistente alla prova dei fatti.

Alberi di olmo e robinia, reperibili facilmente nella zona costiera, fornivano la gran parte del legno che veniva utilizzato per la struttura. Nel '900 si erano aggiunti come materiale anche i binari della ferrovia, usati come pilastri piantati nella roccia, poi collegati con grossi bulloni ai pali di legno, a reggere il tutto. Quel tutto erano la passerella, la piattaforma, la cabina, l'argano, le antenne e la rete. L' argano era l' elemento che consentiva di manovrare la rete, di tirarla su e lasciarla ricadere in acqua in modo non violento ed improvviso ma controllato, da cui l'espressione "cala lenta".

Mare grosso, vento, sole, pioggia, salsedine, erano a turno o insieme lì, ad attaccare, corrodere e consumare in ogni santo momento quella struttura che imperterrita, restava indifferente come un vecchio pensionato seduto davanti al portone di casa, che sembra fregarsene di qualsiasi evento possa accadere.

Matteo a riguardarli, aveva man mano maturato la convinzione che la sua gente era uguale a quei trabocchi. Più ci pensava e più li vedeva uguali. Gente che sta lì a fregarsene delle tempeste e delle mareggiate. Che se la prende così come gli viene, che pare che non ce la può fare e invece affronta tutto, come pronta a sbarcare ma poi incapace di prendere il largo.

Non si rinnovano, non si allargano. Si adattano, rimanendo sempre uguali.

I trabocchi altro non erano che un marchio di riconoscimento e il simbolo della loro identità. In fondo era per questo che dovevano essere tutelati e conservati: non c' era da stare lì a trasformarli in ristoranti, togliendo gli scricchiolii, e rifacendo le passerelle larghe e dritte, sempre più simili a quelle delle sfilate, quelle dove si passa per mostrarsi e che non conducono da nessuna parte.