STORIE DI PAESE

venerdì 3 settembre 2010

MARTINO E L’ARTE DI FAMIGLIA

SanVitoCH.info (C)

Ginevra e Marco con il loro forno-pasticceria si erano creati una fama consolidata di miglior posto in paese: dolci fatti come Dio comanda, ed era quasi doveroso fornirsi da loro per una qualsiasi occasione in cui bisognava "fare figura".
Poi pare che in quella forma a C, si nascondesse in realtà la forma di una colomba in volo, metafora della sposa che lasciava la sua casa natia per andare incontro al futuro marito. Questo spiegava anche il fatto che durante un ricevimento di nozze la presenza del cjiellepjiene era garantita, e il rifiuto di assaggiarne uno era quasi malvisto.
Quello sarebbe semmai toccato ad una futura generazione che dopo Martino, noncurante, si sarebbe mangiata nella lussuria, ciò che c'era da mangiarsi. Dolci a parte.

lunedì 16 agosto 2010

L'ATTESA DI DAVIDE.

SanVitoCH.info (C)

Era decisamente massiccia la presenza degli sponsor, le macchine pacchianamente colorate e coperte da troppi loghi. Quel circo, mediatico e non solo, tanto strombazzante quanto all’apparenza indifferente al percorso che attraversava, era poi colmo di tecnologia a tratti nauseante, infarcita di materiali sintetici, di plastiche, di leghe di carbonio e titanio, di forme spaziali pomposamente votate all’aerodinamica e all’ultraleggerezza, e soprattutto vi si respirava un’ormai asfissiante puzza di inganni, di offese e di insulti allo sport sano e puro. Malgrado tutto ciò, Davide ostinato più che convinto, la poesia nel ciclismo ancora ce la pensava. E insieme alla poesia ci pensava il senso magico di qualcosa d’altri tempi che tuttavia non si era ancora completamente perduto. Veder passare il Giro gli provocava sempre un brivido strano.

In quel giorno, quasi con l’aria di voler convincere qualcuno che si trovasse lì per caso, fingeva di essersi imbattuto nel passaggio del Giro d’Italia, uno di quegli eventi che, mentre attendeva la carovana, lo metteva nella sensazione di vivere un tempo sospeso; attendere il passaggio repentino di centinaia di corridori era, inspiegabilmente alla logica, e ahimè, anche alla testa della sua donna, giusto; il piacere che provava a riguardo ne era la prova lampante. Davide non aveva, in verità, tanta voglia di spiegarle certe sue sensazioni e si divertiva a trovare conferma delle sue inamovibili idee quando sentiva Paolo Conte cantare il piacere di restar lì sullo stradone in attesa di scorgere la sagoma di Bartali spuntare dal curvone, esortando la sua lei ad andarsene tranquillamente al cinema. Come Conte anche Davide intendeva le cose in quella maniera, non c’era da stare tanto a chiedere comprensione se la sintonia di vedute non c’era.

Si compiaceva spesso nel canticchiare quella canzone sotto la doccia prima di quel giorno. Non si sarebbe trattato di salita, ma ne valeva lo stesso la pena. Il fugace passaggio della carovana in zona di pianura, che in tre settimane scorazzava per tutta l’Italia, più o meno interamente, attraversando paesi, borghi, strade di collina e di montagna, centri storici e vie di campagna, gli dava pura gioia nell’applaudire. Applaudirli tutti e nessuno in particolare, applaudire il Giro o, in un certo senso, applaudire il paesaggio italiano che resta, resiste e sopporta quello che gli fanno giorno per giorno: mezzi e motori, scavi e impalcature che tolgono terreno per portare mattoni, cementi e derivati. Forse quello che a Davide piaceva - e faceva fatica a spiegare - era l’idea di un Giro come una sorta di cucitrice che metteva punti laddove il tessuto sembrava ormai lacerato, entrando quasi nelle case delle persone, senza chiedere soldi ma solo di mettere la testa fuori. Sapeva anche che era pura illusione, che non possono bastare delle biciclette quando le cuciture sono messe a così dura prova, ma nel marasma totale, almeno per un attimo, in quel contesto e per venti giorni, gli piaceva pensarlo. Pensava ai posti che non aveva mai visto ma che conosceva grazie al Giro, a quello che evocavano in lui il sentir pronunciare nomi come Zoncolan, Aprica, Mortirolo.

Riguardo a quel giorno, per una tappa senza salite particolari, Davide aveva dovuto però implorare carità, aveva pregato e infine imprecato perché molti altri spettatori meno interessati se ne andassero al Cinema, voleva restare lì sulla strada e aspettare per applaudire, applaudire per tornare a casa soddisfatto. Avevano rovinato anche quell’attesa, dieci minuti, quei minuti che non sanno misurare la soggettività di un’attesa. Si ritrovò suo malgrado ad assistere ad un altro circo, quello dei suv e delle mamme in ansia, degli sbuffi e delle polemiche di quanti dovevano assolutamente andare a casa a buttare giù la pasta e invece erano ancora lì ad aspettare, forzatamente, che si riaprisse la strada bloccata dal passaggio del Giro.

Voleva urlare che potevano aspettare, che quando passa il Giro ci si ferma, che è giusto fermarsi e che è bello fermarsi. Ma l’avrebbero compreso?

No!

Semplicemente del Giro non ne intendevano il senso e la bellezza ma solo il fatto che tiene bloccate le persone. La capacità di gettare via minuti non è data a molti e spesso questa lacuna è mascherata dalle varie categorie di persone nei modi più disparati:

Le apprensive, “Mio figlio è stato costretto ad aspettare, dentro il pulmino, sotto il sole”.

I mancati organizzatori “Ma vuoi avvertire i cittadini che a tal’ora la strada sarà bloccata?” o “Non hanno nemmeno pensato a far uscire prima i ragazzi dalle scuole”.

Gli stacanovisti “Devo assolutamente rientrare al lavoro tra venti minuti”.

Gli anarchici “E’ assurdo che il Giro mi costringa a restare fermo qui”.

I rivoluzionari “Se tra cinque minuti questi non sono passati io metto in moto e passo e guai a chi si para davanti”.

Davide, indignato, li guardava brutalmente mentre si ricordava che ai suoi tempi si usciva prima da scuola in compagnia della maestra, non per andare a casa, ma per guardare i corridori passare.

Se avesse gridato a tutti di farla finita, forse qualcosa sarebbe successo, ed invece mentre pensava di scagliarsi contro qualcuno, l’attesa, seppur rovinata, era ormai finita, e d’improvviso i corridori stavano per passare. Tutti in gruppo, un rumore fantastico di quattrocento ruote che girano sotto la forza di pedali a catene oleatissime.


Mentre ricacciava in gola gli improperi, quel brivido strano stava già percorrendo la schiena di Davide che si lanciò nel più bell'applauso che le sue mani erano mai state in grado di produrre. Un minuto di soddisfazione e di gioia che non avrebbe cancellato le stupide polemiche di chi non può vedere oltre un Suv o oltre una pentola d’acqua in ebollizione. Passata la carovana mentre le ultime ammiraglie e le moto chiudevano il Giro, le macchine ferme in attesa si rimettevano in moto e Davide se ne poteva andare soddisfatto e con in faccia il ghigno di chi mostra di avere appena gustato una piacevole vendetta. I buttatori di pasta & Co. avevano perso. A loro, al contrario di Davide, quei dieci minuti non erano affatto volati.

mercoledì 21 luglio 2010

GINO E ANNA PER SEMPRE INSIEME

SanVitoCH.info (C)

A Gino era toccato vivere nell'epoca in cui ogni singolo guadagno del suo lavoro non apparteneva a lui, come oggi si riterrebbe scontato, ma al suo amato padre, amministratore unico di tutte le entrate della famiglia. Tatà Lorenzone infatti, sapeva cosa fare con quei soldi e come ripartirli in maniera equa tra i suoi sette figli e le diverse donne che in certe sere andava a visitare.

Un'unica volta Gino, bisognoso di un po' di tabacco aveva chiesto alla Signoria di suo padre qualcosa in più, e la questione s'era risolta in una doppia incazzatura. Tatà, con una scrollata di spalle gli aveva risposto che del tabacco poteva farne benissimo a meno. Lì per lì, Gino fece una gran fatica a ributtar giù le parole che gli stavano venendo fuori dalla bocca: chi tra i due poteva fare a meno di qualche sporco vizio, era proprio il vecchio. All'indifferenza del padre, aveva fatto seguito l'insolenza di Anna sua moglie, che senza alcun ritegno s'era intromessa pure lei, incoraggiando la Signoria del suocero a non dare alcun denaro al figlio, che tanto andava buttato via in tabacco.

Dunque Gino, che si era trattenuto a stento dal rispondere al padre, vedeva ora la moglie, uscirsene senza nessuna vergogna, a mettere il becco mentre due uomini, per giunta padre e figlio, parlavano. Non fecero in tempo a rientrare in casa, che a Gino il viso era già divenuto violaceo, le mandibole serrate e una grossa vena gli pulsava a pressione sulla tempia destra. Era lampante che gli stavano ripassando i cinque minuti.
Soli nella stanza, per cominciare il discorso in qualche maniera, la cosa che gli venne più facile da fare fu allentare uno schiaffone alla moglie che la lasciò tramortita, forse più dallo stupore che dal dolore. Solo dopo lo schiaffo Gino, fu capace di emettere dei suoni, urlati eppure sconnessi, privi di senso, incomprensibili nella forma ma comunque chiarissimi nel messaggio.
Quindi cominciò a riprendere parte del suo usuale pallore, ma rimase con la bocca aperta e le palle degli occhi che sembravano volessero sgonfiarsi. Anna si poggiò la mano sulla guancia offesa, disse: Ohh Dio!!!
Lui, le diede le spalle, si voltò e riuscì di casa. Si era pentito, non capiva perchè l'aveva fatto e perchè non s'era fermato in tempo. Era la prima volta che accadeva in nove anni di matrimonio, e non ce ne fu un'altra negli altri 27 che avrebbero passato assieme.
Anna dal canto suo, aveva realizzato come il marito si fosse sentito umiliato. Lavorava come un asino il marito, e come se non bastasse doveva abbassare la testa come un ragazzino perchè non poteva ancora comandare a casa sua. Quel tabacco non era un vizio, era uno sfogo.
Gino era sconvolto da ciò che aveva fatto, e aveva capito che aveva scaricato sulla moglie la rabbia che in realtà aveva nei confronti del padre. Il giorno dopo era tutto passato senza chiarimenti e senza scuse da parte di nessuno. A Gino le parole non venivano nemmeno quando era calmo, poi chiedere scusa ad una donna, significava darle troppa confidenza.
In altri 27 anni insieme quell'episodio non fu mai nominato sebbene nessuno dei due lo avesse dimenticato, e con il tempo, Anna lo ricordava tra sé e sé quasi con piacere: poteva pensare alla sua vita insieme al marito, un marito impeccabile con i figli, con lei e con chi lo conosceva, un marito che aveva sbagliato solo una volta e non per colpa sua in fondo.
Dopo quel giorno in cui lui la lasciò perchè andando per granchi si fracassò la testa sugli scogli, lei avrebbe cominciato a raccontare di tanto in tanto ai nipoti di quello schiaffo, come se si fosse trattato di una carezza. In realtà nessuno in famiglia capiva la bellezza di quel gesto ma in fin dei conti il bello, era lei che ne parlava.

domenica 25 aprile 2010

D'ANNUNZIO, ZI' NICOLA E LA TOPONOMASTICA

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Gabriele D'Annunzio, da molti definito il genio compreso della letteratura italiana, ebbe nel suo soggiorno a San Vito Chietino l'ispirazione per il drammatico e appassionato "Il Trionfo della Morte": nel romanzo il suo alter ego Giorgio Aurispa è un uomo dominato dalla passione irrefrenabile per la donna amata; è una passione tragica: il protagonista è incapace di riuscire a vivere la sua storia felicemente e, tormentato dalla passione, vinto in ogni momento dai dubbi e dalla gelosia, decide che l'unica soluzione sia di togliersi la vita e contemporaneamente toglierla alla sua amata. Impossessato dalla lucida follia che lo attanaglia, sceglie di porvi fine nel modo più tragico e di finirla così, avvinti nel comune destino per restare sempre una sola cosa.

Essendo un genio compreso, D' Annunzio vide il suo romanzo avere grande succeso, non bisognò aspettare che a morire fosse l'autore, come pure di frequente accade a tanti talenti che anticipano troppo i tempi.

Da lì iniziò quella corsa delle amministrazioni ad assegnare il nome del poeta alle strade, alle scuole e ai posti che fino ad allora la gente era abituata a chiamare con altri nomi. E per verità in barba alle nomine ufficiali, la gente del posto avrebbe continuato a chiamarli col nome di sempre.

Per le scuole e le strade forse no. Contro una "Via D'Annunzio" un "Istituto D'Annunzio" c'era ben poco da fare, ma se vogliamo pensare al Promontorio, beh quello per la gente restava il "Colle del Guardiano" in quanto posto di guardia ideale dove, come anche il poeta scrisse, si poteva osservare a sinistra fino al Gargano e le Isole Tremiti, a destra fino al porto di Ortona. Colle del Guardìano (per essere precisi) che rimase tale nella bocca dei più, fino ai nostri giorni, eccetto che per i forestieri, che possono essere giustificati. La gente del posto invece, nemmeno quando il Comune vi appose una lapide sembrò curarsi di Giorgio Aurispa.

Eppure quando quel sentiero che D' Annunzio percorse a piedi divenne strada rotabile, il comune non si risparmiò:



E pensare che proprio per quella storia, la gente ne ricordava una simile il cui protagonista non era Giorgio Aurispa. Era la vera storia di Zì Nicola, che vera lo era anche nell'epilogo finale. Più comunemente quella di Zì Nicola era la storia di un amore non corrisposto. L'uomo più che essersi innamorato s'era invaghito, e da quando si era dichiarato ricevendone un secco rifiuto, la sua malattia più che placarsi gli era divampata dentro. Continuava ad insistere, ed al secco "No" della sua bella erano via via seguiti un "No, forse non capisci!", Poi "No, vai via". Fino a "No, non voglio vederti tra i piedi" . E "No, ti odio proprio, sparisci".

Il rifiuto rimaneva sempre lo stesso ma si caricava di insulti sempre più pesanti. L ' amore di Zì Nicola non ne risentiva affatto; essere corrisposto o meno non cambiava le cose…

Fu così che, per amore, decise di seguire il consiglio della sua bella, decise di sparire. Avendo perso senno e coscienza per sparire scelse la via a lui più vicina. Salì su per la via del bosco e arrivò al punto più alto del precipizio. E da lì sparì.

Nessuno ci mise una lapide ma quello sarebbe rimasto per sempre il "Fosso di Zì Nicola", un povero innamorato, che non fu mai, né genio né compreso. Ebbe solo, e tardi, un po' di compassione.

mercoledì 31 marzo 2010

FILIPPO E IL LUOGO SOSPESO

SanVitoCH.info (C)


Eppure Filippo ci aveva sempre creduto. Quando i grandi dicevano che se ne sarebbe andato il treno, lui già s'immaginava che bello sarebbe stato correre in bicicletta lì di fianco al mare. Quei due lunghi serpentoni di ferro, che aveva sempre dovuto temere e oltrepassare con la massima cautela, sarebbero diventati in un futuro, che non si capiva quando ma era lì,in pratica dietro l' angolo, un sentiero, dove dare sfogo alla sua voglia di libertà e all'adrenalina che di tanto in tanto gli accendeva le vene. Lontano da macchine e camiòni, senza continui saliscendi, Filippo non dubitava affatto che la cosa era già parlata,...cioè certa.

Filippo a quell'età di politica non parlava, non ne sapeva nulla, sebbene vedeva che alcuni dei grandi ci si scaldavano sopra; in effetti qualcosa aveva iniziato a capire coi manifesti: vedeva quelli del PCI e PSI, che poi erano comunisti e socialisti. Aveva, secondo lui, capito la differenza dal nome: per cui i comunisti volevano mandare avanti le cose con i Comuni e i socialisti con la Società. Beh, che bisogno c'era d'accendersi tanto? Perchè mai non potevano stare insieme i comuni con la società? Vabbè fatti loro.
Poi un'altra cosa aveva capito, che c'erano molti che per la politica non si scaldavano affatto e anzi non ne parlavano proprio. Erano i più calmi, che pensavano alla famiglia e al lavoro, che non avevano tempo da perdere con le fesserie, erano in fin dei conti la maggior parte, ed era il loro, quel partito con solo due lettere. Nel simbolo c'era una croce rossa che pure sua nonna sapeva subito riconoscere. E anche con la prima elementare sapeva cosa doveva fare: segnare la X a matita dove vedeva la croce sulla scheda.
Filippo di queste cose se ne fregava, ma lo divertiva vedere quelli che si scaldavano, che quasi sempre erano comunisti. Beh detto questo, Filippo pensava che la storia del treno che se ne andava e quell'altra cosa, che chiamavano politica, fossero due cose separate.
Togliere il treno e far correre le biciclette. Dov'era la politica?
E invece con il tempo si convinse che le chiacchiere molto spesso non sono solo vento come dicevano. Alcuni con le chiacchiere ci campavano, e pure bene. Altri nelle chiacchiere ci credevano, e ci si inguaiavano. Ormai però, di gente che si accendeva se ne vedeva poca. Il treno era andato via, punto. Non punto e basta, ma punto e boh. Via il treno e .... adesso chissà....adesso facciamo, vedremo, chiediamo, andremo, porteremo, si farà, s'è deciso....,di nuovo chissà.
Avevano fatto crescere un bambino con quella certezza, e ora il tempo aveva fatto il suo sporco lavoro e portato Filippo a conoscere l'amarezza.
Per fortuna pensava che c'era ancora un po' d'adrenalina in quelle vene. In fondo Filippo ci credeva ancora, e non smetteva di oliare la catena.

domenica 14 marzo 2010

IL MARCHIO, ovvero MATTEO SCOPRE I TRABOCCHI

SanVitoCH.info (C)

Matteo quei trabocchi li aveva sempre visti come una cosa scontata: c'erano, come c' erano sempre stati, e come dovevano sicuramente esserci dappertutto. Si stupiva lui stesso a vedere stupiti quei forestieri che chiedevano cos'erano e a che servivano.

Aveva smesso di darli per scontati dopo esserci salito sopra la prima volta; da bambino aveva avuto una paura nera a fare la passerella: diversamente da altre passerelle non si trattava di sfilare, ma più giustamente di passare dalla terra ferma alla piattaforma del trabocco. Agli occhi di principianti la passerella era qualcosa di quanto più instabile e pericoloso l'uomo potesse aver mai arrangiato. Alta sul livello del mare, le assi scricchiolavano e si flettevano sotto il peso dei piedi che con titubanza avanzavano; le stesse assi erano ora vicinissime l'un l'altra, ora distanziate di un buon palmo di mano. E poi oltre ad essere alta, quelle prime volte per Matteo la passerella sembrava non dovesse finire mai.

Una volta ci s' era messo il vento a complicare le cose e a Matteo gli sembrava che stesse per giungere la fine. Le gambe avevano preso a far giacomo-giacomo e il tremolio delle gambe sembrava che si fosse trasferito alla passerella tutta. Era certo che il prossimo passo, se fatto male, poteva esser l'ultimo. Aveva cominciato a sudare e a metà percorso, quando tornare indietro o andare avanti era ugualmente complicato, l'istinto fu quello di inginocchiarsi e andare avanti carponi. Per fortuna che non si era mai soli lassù. Per cui il rischio di scherno da parte di compagni più esperti o il rimbrotto dei grandi, il presumibile arrivo di uno scappellotto dietro al collo lo spinsero ad andare avanti e portarono Matteo sulla piattaforma. Da quel giorno la paura della passerella iniziò ad affievolirsi. Di lì a poco, Matteo si divertiva a passarci sopra di corsa, a tornare indietro e a fermarcisi sopra spavaldo, prendendosi lo scappellotto dietro al collo perché sulla passerella non si doveva sostare.


Non era nulla di scontato il trabocco, e più passava il tempo più gli sembrava la più grande opera architettonica che si fosse mai prodotta da quelle parti. Quello che vedeva Matteo da piccolo, era un ammasso, fatto alla meno peggio, di pali e paletti legati e inchiodati senza alcuna cognizione, corde e fili di ferro che passavano e si incrociavano dando del trabocco un'impressione di un paio di calzoni rattoppati al punto da non identificarne nemmeno più la stoffa originale da quella aggiunta dopo.

Invece no, i traboccanti erano maestri che con gli anni erano riusciti a costruirsi una macchina straordinaria, tanto esile e fragile all' apparenza, quanto forte e resistente alla prova dei fatti.

Alberi di olmo e robinia, reperibili facilmente nella zona costiera, fornivano la gran parte del legno che veniva utilizzato per la struttura. Nel '900 si erano aggiunti come materiale anche i binari della ferrovia, usati come pilastri piantati nella roccia, poi collegati con grossi bulloni ai pali di legno, a reggere il tutto. Quel tutto erano la passerella, la piattaforma, la cabina, l'argano, le antenne e la rete. L' argano era l' elemento che consentiva di manovrare la rete, di tirarla su e lasciarla ricadere in acqua in modo non violento ed improvviso ma controllato, da cui l'espressione "cala lenta".

Mare grosso, vento, sole, pioggia, salsedine, erano a turno o insieme lì, ad attaccare, corrodere e consumare in ogni santo momento quella struttura che imperterrita, restava indifferente come un vecchio pensionato seduto davanti al portone di casa, che sembra fregarsene di qualsiasi evento possa accadere.

Matteo a riguardarli, aveva man mano maturato la convinzione che la sua gente era uguale a quei trabocchi. Più ci pensava e più li vedeva uguali. Gente che sta lì a fregarsene delle tempeste e delle mareggiate. Che se la prende così come gli viene, che pare che non ce la può fare e invece affronta tutto, come pronta a sbarcare ma poi incapace di prendere il largo.

Non si rinnovano, non si allargano. Si adattano, rimanendo sempre uguali.

I trabocchi altro non erano che un marchio di riconoscimento e il simbolo della loro identità. In fondo era per questo che dovevano essere tutelati e conservati: non c' era da stare lì a trasformarli in ristoranti, togliendo gli scricchiolii, e rifacendo le passerelle larghe e dritte, sempre più simili a quelle delle sfilate, quelle dove si passa per mostrarsi e che non conducono da nessuna parte.